Strage a Graz: riparte la demagogia sulle armi

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Strage a Graz: riparte la demagogia sulle armi

La strage consumata nella scuola di Graz il 10 giugno offre l’assist perfetto a tutte le realtà, più o meno politicizzate, accomunate dal fatto di essere “anti-armi” a prescindere. Non è un caso, in questo senso, che una delle prime voci a essersi levate sull’argomento sia stata quella del primo cittadino della città capitale della Stiria, Elke Kahr, che ha chiesto nientemeno che la messa al bando di tutte le armi legalmente detenute perché, a suo dire, “le licenze vengono rilasciate troppo facilmente”, appoggiato in ciò dal partito dei Verdi (mentre lo stesso partito di Kahr, l’Fpö, si oppone fermamente).

Come al solito, però, le umane vicende andrebbero studiate a fondo e senza pregiudizi e non piegate a visioni preconcette. Tant’è che, chi sostiene da sempre (e numeri alla mano) il fatto che gli strumenti di per sé non abbiano colpa e che le armi legali uccidono in un numero di casi davvero irrisorio, non ha alcun timore a trattare la vicenda del mass-killing di Graz.

Il fenomeno active shooter
Il 10 giugno, il 21enne Arthur A. ha sfogato la sua rabbia all’interno di quella che fu la sua scuola, secondo il noto schema dell’active shooting, vale a dire introducendosi in uno dei cosiddetti soft target (strutture per loro natura non protette “militarmente”) e aprendo il fuoco in modo casuale.

L’alto numero di vittime in questi casi è garantito dal fatto che solitamente si tratta di ambienti ad alta frequentazione, che la struttura non dispone di presidi di sicurezza idonei a prevenire e contrastare la minaccia e che i tempi di intervento delle forze di sicurezza istituzionali possono essere anche decisamente lunghi.

Quando gesti del genere sono rivolti verso scuole o luoghi di lavoro, molto spesso l’origine del disagio che ha portato l’autore a quelle estreme conseguenze va ricercato proprio nel suo passato personale e in rancori specifici che lo legano proprio a quell’ambiente.

I mass killing più diffusi non avvengono con armi da fuoco
In un’epoca in cui stiamo imparando, nostro malgrado, a “normalizzare” il fatto che qualcuno possa raggiungere un luogo affollato (come un cinema, una scuola, una piazza, un mercato, un centro commerciale, un ufficio pubblico e così via) con l’intento di uccidere altre persone in modo casuale, non possiamo non considerare come, nella stragrande maggioranza dei casi, questi assalti avvengano con armi da taglio (stabbing) o investimento tramite veicoli (vehicle ramming), di cui anche la cronaca di questi stessi giorni è ricca, a prescindere che l’assalitore di turno sia animato da movente terroristico o meno.

Tra l’altro proprio a Graz, esattamente 10 anni fa (era il 20 giugno 2015), un uomo a bordo di un suv si lanciò contro la folla uccidendo tre persone e ferendone 34.

Lo stesso panorama italiano vede l’uso di strumenti improvvisati come principale modus operandi nella commissione di omicidi, come confermato dal report rilasciato dal Ministero dell’Interno nel mese di febbraio sugli omicidi per l’anno 2024.

Nonostante questo, le armi da fuoco soffrono di intramontabili pregiudizi, senz’altro dovuti alla loro natura di oggetti fabbricati per recare offesa: eppure, numeri alla mano, il rapporto tra il numero delle armi legalmente detenute e gli episodi in cui sono state impiegate per offendere l’essere umano evidenzia una percentuale davvero irrisoria.

La risposta che certa politica cavalca in ogni occasione di uso distorto delle armi legali, però, si affretta a chiederne ogni volta ulteriori limiti alla diffusione. Sarà la via giusta? Occorre vietare anche la diffusione di coltelli da cucina e automobili? Ovviamente no…

Eppure, quella stessa politica che invoca la limitazione delle armi da fuoco osa sfidare l’umana intelligenza proponendo proprio limiti alla diffusione dei coltelli, come di recente fatto da Macron.

Infine, a pensarci bene, è la stessa politica che sta contribuendo a inondare il mercato nero delle armi inviandone in maniera massiccia verso Est, come se non fosse noto a tutti che le armi che sparano solitamente sono quelle di provenienza illecita e che il mercato nero delle armi si alimenta quasi esclusivamente di armi “deviate” da arsenali e conflitti bellici in genere.

Proteggere i soft target
Come si diceva, esistono luoghi che occasionano un’elevata concentrazione di persone e, come tali, rappresentano un bersaglio davvero appetibile per un assalitore.

Tra questi, tutti i luoghi che non rappresentano infrastrutture critiche o che comunque non sono dotate di dispositivi di security vengono definiti soft target.

L’opera di “irrobustimento” di questi target, quindi porta a riflettere in due direzioni:

  • la possibilità di dotarli di dispositivi di sicurezza, dai metal detector al presidio di personale di security
  • la preparazione a specifiche ipotesi di gestione dell’emergenza.

La prima via non è di facile e immediata attuazione, anche perché alcuni soft target, come per esempio i luoghi di culto, volontariamente non vogliono presentarsi con un aspetto “militarizzato”.

La seconda via, invece, davvero non ha controindicazioni. Allo stesso modo della prima, però, incontra diffuse resistenze da parte dei gestori dei siti stessi.

In molti casi, per esempio, le istituzioni scolastiche non colgono la necessità di investire risorse di tempo denaro per insegnare ai loro frequentatori i comportamenti corretti da tenere nel caso di eventi come questi, ignorando che si tratta certamente di eventi a bassa probabilità di accadimento, ma altrettanto certamente di eventi ad altissimo impatto nel caso in cui si dovessero verificare.

Poco importa che si tratti di un’errata percezione della portata di questi eventi o di uno “speriamo che non ci capiti”, figlio della mentalità più dannosa in ambito sicurezza: il dato è che qualcosa – per poco che sia – si può fare per essere più pronti a gestire questo genere di eventi, ma raramente viene fatto.

Intercettare la devianza
Se è vero che spesso gli active shooter rivolgono i propri rancori mal gestiti nei confronti degli ambienti nei quali ritengono che siano sorti, è allora vero che i giovani e giovanissimi che si determinano a compiere questo genere di gesti lo faranno nei confronti dell’ambiente scolastico.

Lo stesso assalitore di Graz pare, infatti, che soffrisse dei traumi riportati da episodi di bullismo negli anni in cui ha frequentato proprio quella scuola.

Dall’altro lato, era titolare di una licenza che lo aveva abilitato ad acquistare e detenere le armi e supero lo screening psicologico.

Ma da dove arriva la profondità del disagio giovanile? E possibile che non si riesca a intercettarla?

Proviamo a ipotizzare qualche scenario, prendendo le doverose distanze da quella parte dell’informazione non specializzata che, faziosa, offre ricostruzioni quali testualmente le armi, la violenza, il disagio”. Offrire ai lettori una ricostruzione di questo genere significa operare manipolazioni nei percorsi logici di chi, alle nostre parole, si affida.

Già, perché l’ordine logico e cronologico, di causa ed effetto, è esattamente l’opposto: esiste un disagio, che non viene gestito in modo corretto e non viene intercettato per tempo, che poi fa maturare la violenza, che a volte si sfoga con l’uso di armi:

  • Un ragazzo subisce atti che incidono pesantemente sul suo stato emotivo, considerando inoltre che un giovane in età di studio ha una personalità ancora in corso di formazione e può non possedere per carattere gli strumenti necessari a gestire certi tipi di pressioni;
  • Ne discende una sua difficoltà o addirittura incapacità di gestire correttamente le sue emozioni;
  • Il disagio non viene intercettato da nessun soggetto terzo;
  • Il disagio alimenta intenzioni violente;
  • La violenza viene agìta, tramite l’impiego di qualsiasi strumento a disposizione, talvolta quindi anche tramite le armi da fuoco.

Le domande che ne conseguono sono molte.

Cosa fanno le scuole per disincentivare e all’occorrenza punire comportamenti violenti che oggi comunemente chiamiamo “bullismo”? Troppo poco. La sottovalutazione del problema parte già dalla stessa parola “bullismo”, che lascia intendere l’esistenza di marachelle infantili mentre, in molti casi, è il contenitore di veri e propri comportamenti criminali.

Cosa fanno le scuole per intercettare il disagio delle vittime e fornire loro ogni strumento possibile perché il disagio non fermenti e si trasformi in altro? Troppo poco, spesso perché equivarrebbe ad ammettere apertamente di avere problemi tra gli studenti e, a quanto pare, in molti casi, le istituzioni tengono più alla propria reputazione che alla salute di ogni singolo individuo.

E poi ci sono le famiglie, sempre meno capaci di leggere dentro ai propri figli. Insomma, sia in fase di prevenzione sia di gestione della crisi la strada da fare è ancora molto lunga.

In tutto ciò, però, smettiamo per favore di demonizzare gli strumenti e concentriamoci sull’essere umano.

 

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Fonte: armietiro
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