Sud Africa e caccia, un po’ di chiarezza

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Sud Africa e caccia, un po’ di chiarezza

Ultimamente quando si vuole far figurare male la caccia in generale si mandano in stampa articoli che prima dicono e poi subito dopo smentiscono, tanto per fare effetto. Parliamo di caccia africana, che viene sempre più spesso presa a esempio di fenomeno in crisi, per poi ammettere che invece fa parte dei maggior introiti per gli Stati del Continente nero. Naturalmente di quelli in cui l’attività è controllata, e non certo dove il bracconaggio ormai la fa da padrone. La meta più gettonata, per avere ottimi servizi in questo settore, è il Sud Africa, dove le enormi concessioni sono piene di animali che, pagando, possono essere abbattuti. Il business non è cosa da poco conto. Elencando i risultati del South African economy, e quantificando appunto, tale pratica, si scopre che la caccia legale contribuisce al 3,3 per cento del Pil, che vale circa 660 milioni di euro, dando lavoro a circa 95.000 persone. Quindi dove è la “crisi” millantata da alcuni organi di informazione? Se c’è è dovuta al fatto che le quote di animali da poter cacciare sono da addebitare al Ministero dell’Ambiente, che non mette a disposizione i relativi numeri degli animali disponibili come abbattimenti. L’allarme è sempre dovuto ai fronti interni anticaccia che fanno del tutto, assieme a organizzazioni europee che lottano per proibire le spedizioni dei trofei, per mettere i bastoni tra le ruote e ostacolare la caccia regolare. Che, ribadiamo, non è assolutamente in crisi: porta tanti soldi e, al pari dei nostri animali che entrano nelle quote da abbattere per mantenere le specie in equilibrio, altrettanto in Africa mantiene una fauna consona numericamente al territorio disponibile. In ultimo non dimentichiamo che, e questo messaggio dovrebbe arrivare ai tanti ostacolatori della caccia africana, se il Sud Africa non avesse sempre mantenuto questa grande organizzazione venatoria, specie particolari, rinoceronti in primis, sarebbero scomparse da decenni, a causa di un bracconaggio mai combattuto dalle stesse associazioni, come invece la caccia regolare. Bracconaggio che ha imperversato, e imperversa, in molti Stati con l’assoluta indifferenza dei governi locali. Il motivo spesso addotto per screditare l’attività venatoria sudafricana è la famosa storia dei “canned lions”, leoni allevati e immessi “pronta caccia” per cacciatori che, a pochi soldi, potevano abbatterne uno o più, in confronto a safari specifici su animali selvatici veri che sarebbero costati migliaia di dollari in più. Tempo fa scrivemmo diversi articoli al proposito di questi pseudo-safari (oggi peraltro aboliti dal governo sudafricano) che suscitano molte perplessità. Paradossalmente, tuttavia, quella dei “canned lions” altro non è che la concretizzazione dell’idea di tutte le associazioni animaliste, specialmente nostrane: ovvero di rinchiudere la caccia in aree private a cacciare animali immessi. E quindi cosa ci sarebbe di differente rispetto a questa pratica? Che, chiariamo, non ci piace per niente? Nessuna. Visto, tra l’altro, che gli stessi animalisti lamentano continuamente il calo demografico dei leoni causa la caccia, cosa totalmente falsa perché con la caccia vengono abbattuti solo leoni anziani (che abbiano superato gli 8 anni), in numeri esigui certificati proprio dagli enti protezionistici. Il calo dei leoni è provocato da altre cause, bracconaggio e avvelenamento dai locali in primis. Per ovvie ragioni, quali disturbo all’allevamento eccetera. La presunta crisi innescata dalla proibizione dell’esportazione dei trofei verso i Paesi esteri poi è totalmente errata in quanto tutto è tornato normale sia per gli Stati Uniti sia, a maggior ragione, per tutta l’Europa. L’unico scoglio riguarda l’Inghilterra, in cui un fronte animalista boicotta spedizioni di armi da caccia, reimportazioni importazioni e transito dei trofei, nell’isola.

 

 

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Fonte: armietiro
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