Caso Paitoni: chi ci tutela dalla sindrome di Medea?

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Caso Paitoni: chi ci tutela dalla sindrome di Medea?

La vicenda di Morazzone (Va) ha colpito tutti. Davide Paitoni ha ucciso il figlio Daniele, di 7 anni, con una coltellata alla gola. In occasione di una visita al padre, separato dalla moglie e agli arresti domiciliari, il bimbo sarebbe stato attirato in trappola con il pretesto di realizzare un disegno per il nonno, che attendeva la sorpresa del nipote nella sua camera. Quindi Paitoni avrebbe fatto sedere il figlio in un’altra stanza con la scusa di una merenda, gli avrebbe quindi infilato uno straccio in bocca per attutire le urla e lo avrebbe infine ucciso con un’unica coltellata alla gola.

Subito dopo aver nascosto il corpo del figlio nell’armadio, ha raggiunto poi la madre del piccolo, trasferitasi dai genitori dopo le separazione, attirando anche lei in strada con un pretesto per poi tentare di ucciderla con diverse coltellate.

La sindrome di Medea
Si tratta di un disturbo che deriva il nome dalla figura mitologica di Medea la quale, per ferire Giasone, reo di averla lasciata, uccide la nuova compagna di lui e, peggio ancora, i figli suoi e dello stesso Giasone.

Il complesso di Medea riguarda in particolare il fenomeno per cui un soggetto, incapace di gestire relazioni e pulsioni, dopo il fallimento del progetto familiare o di coppia, attribuisce all’altro la responsabilità di ogni suo male e comincia a desiderare di punirlo e dunque fargli del male.

Come? Ovviamente in modo diretto, uccidendo, ferendo, sfigurando l’altro o attraverso uno degli altri innumerevoli comportamenti che la parte più oscura dell’essere umano sa mettere in atto, che trovano ampia manifestazione nelle violenze di genere, compiute nella stragrande maggioranza dei casi dagli uomini nei confronti delle donne (ma non mancano anche casi opposti). Ma, anche, causando il più atroce dei dolori: colpire le persone che l’altro più ama, figli in primis, comportamento in questo caso messo in atto più spesso dalle madri.

Nella maggior parte dei casi, per fortuna, la vendetta nei confronti dell’altro si compie con modalità meno efferate e con esiti meno drammatici rispetto all’uccisione anche se in realtà, purtroppo, la vicenda di Morazzone assomiglia a troppe vicende simili a questa in tutto e per tutto. Drammi famigliari in cui la follia di un soggetto si trasforma in furia omicida nei confronti di mogli, figli e mariti.

Molto più frequentemente il complesso di Medea si manifesta in comportamenti dagli esiti meno drammatici, si diceva, ma comunque portatori di traumi e danni incalcolabili: comportamenti subdoli e striscianti che un genitore spesso mette in atto dopo una separazione o un divorzio e che sono finalizzati a distruggere la relazione tra l’altro genitore e i figli, come per esempio parlando male dell’altro davanti ai figli e gettando discredito sulla sua figura o, in generale, su quella della sua famiglia, di fatto attuando una vera e propria manipolazione.

L’uccisione dei figli, quindi, diversamente dall’esempio mitologico di Medea, grazie al cielo diventa spesso metaforica. Paitoni, invece, il piccolo Daniele l’ha ucciso davvero. Tra l’altro, proprio Paitoni avrebbe detto al figlio Daniele frasi quali “tua nonna è una m…a”, dunque manifestando già in nuce le esternazioni del complesso di Medea. Saremmo dunque di fronte a una escalation nella volontà di ferire la moglie, con un passaggio dalla manipolazione iniziale fino all’uccisione del figlio e al tentativo di uccidere anche la moglie.

Era un dato osservabile e valutabile? Ebbene sì. Spesso le tragedie sono anticipate da segnali che, pur “deboli”, sono comunque potenzialmente osservabili e valutabili.

La domanda dunque è: chi poteva osservarli? E soprattutto: chi è in grado di valutarli, attribuendo loro un peso nel giudizio di pericolosità di un soggetto e adottare le relative cautele?

Chi è Paitoni?
Davide Paitoni, nel momento in cui ha ricevuto la visita del figlio si trovava agli arresti domiciliari per aver aggredito il 26 novembre un collega con un coltello, tanto che per uccidere il figlio si era dovuto procurare un nuovo serramanico. Pare poi che in quei giorni avesse anche acquistato e assunto cocaina, pur dichiarando dopo l’arresto che non lo aveva mai fatto in precedenza.

Chiaro che nella ricerca di quali siano state le pulsioni omicidiarie si è fatto riferimento alla sindrome di Medea, ma è ovvio che l’uso di cocaina può aver contribuito non poco nel soffocare i normali freni inibitori e favorire così il passaggio dal pensiero all’azione. Anzi, l’uso di stupefacenti rappresenta oggi una tra le principali cause tanto delle forme di disagio dell’individuo che provocano effetti “implosivi” (dalla depressione in poi) quanto della commissione di crimini che altrimenti non troverebbero spiegazione.

Pare, inoltre, che Paitoni fosse anche al centro di segnalazioni per l’ipotesi di maltrattamenti in famiglia, per suoi comportamenti del 2019.

Considerati tutti questi aspetti, lo stesso Gip che si è trovato a convalidare l’arresto ha sottolineato nella propria ordinanza, tra le altre cose, «l’attitudine dell’indagato alla violenza sulla persona come modalità di risoluzione dei conflitti», di fatto esprimendosi in merito alla personalità e alla pericolosità del Paitoni.

Ma una simile prognosi sulla pericolosità del Paitoni poteva essere svolta prima? La tragedia poteva in qualche modo essere prevenuta ed evitata?

Ovviamente il tentativo non vuol essere un puerile esercizio di attribuzione di colpe, ma un irrinunciabile studio di quanto occorso. Lo studio degli incidenti rappresenta, infatti, lo strumento principale per individuare le cause di un evento e, se possibile, apportare correttivi per il futuro.

Chi deve valutare la pericolosità di un soggetto?
Questo è il dilemma. È scontato che, dopo l’efferata uccisione del figlio, si sostenga l’attitudine violenta del soggetto. Ma c’era la possibilità di rilevarla anche prima? A chi spettava il compito di farlo?

Esiste un dato storico: Paitoni aveva aggredito un collega di lavoro con un coltello non molto tempo prima.

Esiste poi il diverso piano del procedimento civile di separazione tra i coniugi, all’interno del quale sarà stato disciplinato il diritto di Paitoni di vedere e tenere con sé il figlio. In questo senso sarebbe interessante sapere se e quanta parte delle informazioni sulla personalità e i precedenti di Paitoni sono confluite in quella sede, con particolare riferimento all’ipotesi dei maltrattamenti in famiglia. È vero che, soprattutto in caso di separazione consensuale, il Tribunale si limita di fatto ad accogliere e validare le regole che i coniugi presentano congiuntamente e che spesso gli stessi coniugi tacciono al Tribunale informazioni importanti, ma è altrettanto vero che le regole sulla gestione dei figli minori passano comunque al vaglio del Tribunale addirittura previo parere del Pubblico ministero.

Comunque sia, il piano penale e il piano civile della separazione non si parlano, altrimenti il diritto di ricevere il figlio dopo due mesi dall’accoltellamento di un collega per futili motivi sarebbe stato comunque quantomeno ridiscusso.

Si dirà, poi, che aver agito violentemente contro un estraneo non poteva far presagire l’uso della violenza addirittura nei confronti del figlio. Tant’è che lo stesso Gip che firma l’ordinanza di arresto argomenta come il fatto che la madre abbia accompagnato il figlio dal padre sarebbe stato di per sé “incompatibile con qualsiasi allarme che un precedente atteggiamento del padre avrebbe potuto destare nella donna”. In altre parole, il fatto che la madre abbia accompagnato il figlio dal padre sarebbe stato sintomatico dell’assenza di pericolosità di questo. Stiamo dicendo che la valutazione sulla pericolosità del soggetto è a carico della madre… Occorre essere chiari ed evitare fraintendimenti. Se da un lato è più che condivisibile la visione secondo cui lo Stato non può e non deve entrare d’imperio nella vita delle persone per sondarla a tutto tondo, valutarla e intervenire di sua iniziativa (se non in dittatura), dall’altro sono anche vere però due cose: Paitoni era stato da poco coinvolto in una vicenda che parla di facile ricorso alla violenza, di assenza di scrupoli e inibizioni a offendere la persona e di risvolti psichiatrici derivanti dall’uso di cocaina; la madre non può avere una visione oltremodo lucida perché è parte del problema. Chiunque sia coinvolto in un problema, specie se duraturo e logorante come il periodo che porta alla separazione e specie se da un soggetto del genere, non può avere una visione terza e imparziale, poiché coinvolto emotivamente in quanto protagonista delle vicende. È noto come ogni osservazione scientifica debba avvenire da una posizione terza, poiché un osservatore che facesse parte del sistema sarebbe comunque da questo influenzato. A ciò si aggiunga che lunghe e logoranti vicende umane e famigliari portano spesso a gestire le scelte della quotidianità sulla scorta di esigenze spicce e obiettivi di giornata, come concedere al padre di vedere il figlio il primo giorno dell’anno, sempre nella speranza, che tutti nutriamo in fondo al cuore, che le cose possano cominciare a stabilizzarsi e prendere una nuova normalità.

Tutto questo fa sì che, se da un lato occorre sempre essere vigili e quanto più possibile lucidi nel valutare quanto ci accade nella quotidianità, oltre che pronti a prendere le giuste decisioni, dall’altro serve tutela da parte di chi ha gli strumenti per valutare davvero la pericolosità di un soggetto, a maggior ragione se la pericolosità di quel soggetto è già stata oggetto di osservazione e valutazione. Paitoni, infatti, era appena passato al vaglio della magistratura penale per un fatto che parlava in modo approfondito della sua personalità! E la sua pericolosità, tra l’altro, era stata colta dalla Procura di Varese, che aveva contestato a Paitoni la pericolosità sociale allorché questo aveva chiesto di essere ammesso agli arresti domiciliari dopo l’accoltellamento del collega il 26 novembre. Arresti domiciliari che, a quanto pare, gli erano stati concessi disattendendo le contestazioni della procura. Perché?

Abbiamo già chiarito come ognuno di noi debba essere responsabile della propria sicurezza e come non sia concepibile in democrazia l’ipotesi di demandare allo Stato un controllo così pervasivo delle nostre vite. Si aggiunga che, ahinoi, le disgrazie sempre sono capitate e sempre capiteranno. Ciò non toglie che, almeno in alcuni casi, un sistema sano dovrebbe garantire l’occasione per cogliere in anticipo la pericolosità di un soggetto e gli strumenti adeguati per farlo.

Ma chi può avere gli strumenti per valutare la personalità di un soggetto? Chi può avere occasione di farlo in ambito criminale, vale a dire in una sede che può offrire molte informazioni sulla personalità di un soggetto? Chi deve profilare? Il magistrato! Che operi dalla procura e si occupi di indagini, che sia chiamato a giudicare o che rivesta il ruolo di magistrato di sorveglianza, poco importa, a maggior ragione se si considera che il percorso formativo e di carriera è unico. Non i periti, che intervengono peraltro in un numero esiguo di casi, non i consulenti tecnici, non i servizi sociali, tutte figure che intervengono in singole vicende giudiziarie, con un compito limitato e circoscritto e con competenze che, benché profonde, si limitano al solo loro campo di azione. In un sistema giusto dovrebbe essere il magistrato a conoscere il reo, guardarlo, parlarci e coglierne gli aspetti di personalità, almeno nelle sedi in cui è richiesto in modo specifico di esprimersi sulla pericolosità.

Già, perché le vicende giudiziarie sono la sede in cui si valutano un fatto e le responsabilità di chi l’ha commesso, ma sono anche l’occasione in cui è possibile rilevare elementi utilissimi ai fini di una prognosi sulla pericolosità, che non è giudizio su di un fatto preciso, ma valutazione sull’intera persona.

In altre parole, la valutazione sulla pericolosità è una valutazione su quanto il reo potenzialmente può commettere, non una valutazione di quanto ha già commesso!

Per potersi esprimere sulla personalità, però, occorre possedere gli adeguati strumenti umanistici di profilazione e non solo tecnico-giuridici di valutazione dell’illiceità di un comportamento. Viene a mente la criminologia, ambito di studio multisciplinare e interdisciplinare in cui la conoscenza di elementi di diritto, di psicopatologia forense, di sociologia, di criminalistica e di molte altre discipline concorre a formare un operatore completo del sistema giustizia. Criminologia è ancora materia di studio alla facoltà di giurisprudenza, ma la sensazione è che il diritto, materia umanistica come poche, stia subendo in generale un processo di trasformazione in una sorta di disciplina tecnica. Quando l’animo umano potrà essere letto e compreso come una formula matematica ne riparleremo. Oltre agli strumenti di profilazione, occorre poi avere l’occasione di poter dedicare del tempo all’esame di un imputato, in più momenti, senza fretta, una vera e propria utopia in un mondo forense che prova per inerzia a smaltire carichi di lavoro ingestibili… E qui emergono i pesi del sistema giustizia in particolare e della cosa pubblica in generale.

Il sistema è al collasso
La giustizia civile, che riguarda i contenziosi privati tra i cittadini, è sempre più cara e inaccessibile, oltre che spesso vanificata da infiniti stratagemmi affinché, in sostanza, chi si trova condannato a una determinata prestazione sempre più spesso alza le spalle e sostiene la propria insolvibilità, con buona pace di quel portatore di un giusto diritto che avrà speso migliaia di euro per ottenere una sentenza che potrà, al limite, appendere alla parete per ricordo.

Certo che, se chi si sottrae volontariamente e fraudolentemente all’adempimento di una condanna civile, per esempio di risarcimento danni, subisse altri tipi di ripercussioni, come in sede penale o amministrativa, certi atteggiamenti, che oggi prendono sempre più piede confidando nell’impunità, sarebbero di certo meno diffusi. Ma questo richiederebbe un ordinamento giuridico coerente, che scoraggia e sanziona le strategie volte a sottrarsi ai propri obblighi anziché ispirarne di sempre nuove.

Richiederebbe, in buona sostanza, un legislatore chiaro, che non lasci vuoti normativi dei quali è possibile approfittare o, peggio, che non determini tali vuoti in maniera mirata…

Richiederebbe, poi, un alto e forse irraggiungibile profilo etico in ogni operatore del mondo della giustizia, compresi gli avvocati, che dovrebbero garantire il rispetto dei diritti sostanziali e processuali dei propri assistiti e non elaborare e suggerire escamotage per sottrarsi alla giustizia. La giustizia penale, dal canto suo, sembra sempre più inefficiente e comunque impossibilitata a svolgere davvero la sua funzione, come l’orchestra del Titanic che, benché lodata da un secolo per il suo spirito, alla fine è andata a fondo con tutto il resto.

Il fondamentale servizio di prevenzione e contrasto del crimine svolto dalle forze di polizia, poi, è stato spuntato da decenni di frustrazioni, compressioni e, da ultimo, di distrazioni politiche: lo stesso ministro dell’Interno ha recentemente dichiarato che occorre la massima concentrazione sul controllo dei green pass e che gli altri reati possono aspettare…

Vi è, poi, il tema della ineffettività della pena. Sebbene si arrivi alla condanna penale di un soggetto, quante probabilità ci sono che questa sia in qualche modo efficace? E in modo ancor più radicale, quante probabilità vi sono che il soggetto sconti davvero la pena inflittagli? Da un lato le modalità di espiazione della pena si diversificano sempre più, in ossequio alla visione del Beccaria di dover tendere sempre e comunque alla riabilitazione del reo e dimenticandosi che questa degnissima finalità rappresenta solo una delle funzioni della pena: esiste certo la repressione del colpevole ma, soprattutto, esiste la finalità di tutela della collettività da un soggetto pericoloso, che ha dimostrato di esserlo e che ben potrebbe manifestare di nuovo la sua indole. La riflessione conduce, infine, a dedicare un pensiero al collasso del sistema carcerario. Strutture spesso inadeguate e comunque insufficienti, sovrappopolazione, luogo di divulgazione di pratiche criminali: dalla criminalità di marciapiede a quella organizzata, fino al terrorismo jihadista, la sensazione è che qualcosa ci sia sfuggito di controllo.

Comunque sia, sulla vicenda Paitoni pare che il Ministro abbia chiesto chiarimenti: si troveranno il capro espiatorio e la soluzione di giornata insieme alla pace mediatica, che affrontare i problemi in radice è altra cosa.

Non servono richieste di chiarimenti, dichiarazioni alla stampa, ricerche di responsabilità da seppellire con le vittime per poi cambiare pagina e lasciare tutto immutato. Non servono codici o scarpette rosse per le donne, bianche per i bambini e chi più ne ha più ne metta. Serve una normazione coerente, chiara e semplice e un apparato della giustizia che prevenga e contrasti il crimine in modo efficace, che giudichi in modo sereno e motivato e che garantisca effettività alle pene, senza mancare di concedere chances a chi se le dovesse meritare, previa ampia dimostrazione…

Serve una polizia preparata, professionale ed efficace. Serve una magistratura preparata a tutto tondo, perché il diritto è e resta materia umanistica, non tecnico-scientifica. Serve un sistema carcerario rispettoso della persona ma efficace e sicuro. Dal pianeta giustizia è tutto. La sensazione, però, che quanto meno qualche altro cardine dell’apparato pubblico scricchioli almeno quanto la giustizia. Il pesce, si diceva una volta, puzza dalla testa. Questo Paese è da rifondare: peccato si sia persa anche l’autonomia decisionale ed economica per poterlo fare.

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Fonte: armietiro
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