Norvegia: cinque morti con arco e frecce, torna il tema dei first responder

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Norvegia: cinque morti con arco e frecce, torna il tema dei first responder

Quanto successo a Kongsberg, a 80 chilometri da Oslo, è un evento davvero straordinario nel suo genere.
Un uomo (pare un cittadino danese di 37 anni) è infatti sceso in strada con arco e frecce per poi incominciare a bersagliare i passanti, uccidendo cinque persone e ferendone gravemente almeno altre due.
Come sempre la cronaca comincia a sgocciolare informazioni sull’accaduto. Lato nostro, proviamo a trarre spunti di riflessione dalla notizia.
Anzitutto sembra che vi siano state quantomeno due distinte scene del crimine, vale a dire che l’assalitore si è mosso e spostato durante la sua azione, colpendo i passanti almeno in due punti distinti.
Certamente è una caratteristica tipica di ogni mass killer quella di perpetrare l’azione offensiva fino all’intervento delle forze di sicurezza oppure fino all’esaurimento delle proprie capacità offensive (quante frecce avrà avuto l’assalitore in Norvegia? Quante sarà riuscito a scoccare?)

Tempi di risposta e first responder
Quel che è certo, però, è che per poter prolungare la propria azione è necessario avere sufficiente tempo a disposizione. E il tempo a disposizione di un mass killer, come ovvio, è strettamente legato ai tempi di intervento delle forze di sicurezza.
Stando alle prime ricostruzioni sembra, dunque, che l’assalitore abbia avuto un lungo lasso di tempo per condurre il suo attacco. La circostanza ci porta quindi a ritenere che l’intervento delle forze di sicurezza sia stato comunque tardivo. Ovviamente non ci è dato sapere se il tempo perso sia da addebitare alla comunicazione e dunque al fatto che la notizia sia arrivata con grande ritardo a chi di dovere, oppure se dipenda direttamente dai tempi tecnici di intervento. In questo senso viene da pensare che un mass killer armato di arco e frecce sarebbe potuto essere affrontato da una ordinaria pattuglia delle forze di polizia, quantomeno a contenerne e l’azione fino all’eventuale intervento di unità specializzate.
Anzi, come spesso l’analisi di eventi di questo genere porta a considerare, in molte occasioni è addirittura l’intervento da parte di qualcuno tra i presenti a contenere gli effetti nefasti di attacchi di questo genere, quantomeno ritardando l’azione dell’assalitore e quindi in definitiva limitando il numero di vittime. Proprio uno tra i feriti, tra l’altro, risulta essere un agente di polizia fuori servizio: sarà interessante sapere se il suo ferimento sia dipeso da un suo tentativo di intervento o se sia stato semplicemente bersagliato dai colpi dell’assalitore come gli altri presenti. Sta di fatto che uno degli elementi emersi in questa vicenda è che gli agenti di polizia norvegesi (in servizio e fuori servizio) non hanno immediata disponibilità di armi da fuoco, è stato necessario che la direzione della polizia nazionale norvegese emanasse un ordine ad hoc perché i poliziotti recuperassero le armi d’ordinanza. 

Grande distribuzione ancora al centro
Come spesso accade, sembra che l’azione abbia avuto inizio nei pressi di un supermercato, nei paraggi del quale si sarebbe sviluppata la prima scena del crimine.
La circostanza non stupisce e, a prescindere dal fatto che potrebbero emergere informazioni su legami precisi con luoghi e persone, i luoghi ad alta frequentazione rappresentano né più né meno che l’occasione per colpire un grande numero di vittime in poco tempo e nello stesso contesto.
Ancora una volta, le occasioni di intervento nel tentativo di interrompere sul nascere una strage di questo genere non mancherebbero, se solo sul territorio vi fosse la presenza capillare di personale di sicurezza armato e preparato, non importa se pubblico o privato, a protezione di negozi ed attività commerciali.

L’approccio “disarmista” non paga
La polizia norvegese sembra ordinariamente non portare armi. Pur non conoscendo, ovviamente, come viene organizzata la gestione di una crisi di security da parte degli organi di polizia, viene però da pensare a come gli agenti possono pensare, in primis, alla propria sicurezza personale se non sono in grado di tutelarsi con l’ausilio delle armi.
Laddove, infatti, gli agenti a più stretto contatto con la cittadinanza siano disarmati, soprattutto in luoghi turistici e centri abitati, il territorio è comunque efficacemente presidiato da diverse unità meno visibili ma pronte all’intervento nel caso di bisogno. In altre parole, potremmo dire che un contesto urbano può permettersi una “polizia di prossimità”  disarmata (in funzione  deterrente e mantenendo in questo modo un basso impatto sulla cittadinanza) solo se a portare le armi, anche in protezione della stessa polizia di prossimità, sono deputati altri soggetti, meno visibili ma indubbiamente efficacemente pronti all’intervento.
Anzi, come detto poco fa, di fronte a eventi di questo genere sarebbe prezioso anche solo poter contare su personale della sicurezza privata che si trovasse già sul posto a protezione di attività commerciali o produttive: qualsiasi intervento contribuisce, infatti, a ritardare l’azione del killer e in definitiva a limitare il numero di vittime.
Questo è tanto vero che, come ripetiamo spesso, in numerosissime occasioni il crescendo omicidiario è stato interrotto o quantomeno ritardato addirittura dall’intervento di qualche privato presente ai fatti che ha preso l’iniziativa, spesso pagandone personalmente il prezzo.
Anche un cittadino di passaggio, meglio ancora se armato, avrebbe fatto la differenza.
Non a caso, sembra che dopo l’evento sia stata data indicazione tutti gli agenti del paese di girare armati.
Alle stesse considerazioni aveva portato anche l’esperienza delle “gun free areas”, vale a dire quelle zone (spesso circoscritte come edifici o aree recintate) in cui è fatto divieto di accedere armati, spesso prescelte per attacchi violenti proprio per la certezza degli assalitori di non trovare alcun ostacolo alla loro azione: in buona sostanza, quando in un sistema non protetto dalle armi si introduce un criminale amato, questo gode di una quantomeno temporanea inarrestabilità.
Quando incominciano a verificarsi morti violente, però, chissà perché si ritorna a considerare con più oggettiva lucidità la possibilità di avere persone armate e preparate a difesa di territorio e persone.

Terrorismo?
Perché no, nel senso che allo stato non è dato qualificare di natura sia la spinta che ha indotto all’azione l’autore di questo fatto.
Già, perché terrorismo è una motivazione, un metodo, non una tecnica, tanto che i movimenti terroristici che nei tempi recenti più spesso flagellano i Paesi occidentali, quelli jihadisti, ci hanno abituato a dover fronteggiare gli eventi più diversi.
Ormai numerosi anni fa cominciarono, tramite la propria propaganda media, a inneggiare all’uso del coltello (stabbing) nei confronti di ignari cittadini, diffondendo linee guida sulla scelta del coltello, di quale sia il contesto migliore in cui agire e addirittura sulle tecniche più efficaci da impiegare.
Qualche mese dopo fu la volta del fenomeno degli investimenti con veicoli (vehicle ramming), ancora una volta corredato da istruzioni dettagliate sulla scelta del veicolo più adatto e delle modalità operative più paganti.
Di recente, nel solco della indubbia creatività che spinge questi criminali ascoltare ogni potenziale occasione, sono apparsi appelli ad attaccare con i mezzi più disparati: causando incidenti automobilistici, creando disagi energetici, inquinando acque e chi più ne ha più ne metta.
Dunque l’uso di arco e frecce di per sé non stupirebbe nemmeno se l’azione dell’assalitore si inquadrasse all’interno di dinamiche terroristiche.
Così come non stupirebbe neanche l’azione di un singolo senza nessun legame concreto con strutture terroristiche organizzate, poiché la storia più recente ci ha abituati anche a fenomeni di auto radicalizzazione e azione autonoma e spontanea dedicata a una lontana causa terroristica.
Le stesse considerazioni, ovviamente, restano valide a prescindere dalla specifica causa terroristica a cui l’autore dovesse aver votato il suo gesto: proprio 10 anni fa, infatti, la Norvegia visse il suo momento più tragico in occasione della strage di Utoya che, insieme al parallelo attacco in Oslo, segnò per sempre la storia del Paese. In quell’occasione, infatti, la causa cui furono ascritti quei gesti fu quella del suprematismo bianco.
Infine, quanto detto circa le potenzialità offensive di strumenti a bassissimo costo e liberissima vendita e circa i bisogni di protezione dei centri abitati e dei luoghi ad alta frequentazione non viene meno nel caso in cui quanto accaduto in Norvegia forse riferibile a volontà ritorsive più specifiche dell’assalitore o semplicemente a un profilo psichiatrico a rischio.
Ciò che è certo e che ne stiamo vedendo e ne vedremo sempre più delle belle. Nel frattempo non guasta recuperare quella antica, sana e sottile quota di allarme che, trasformandosi in attenzione, ha consentito al genere umano di sopravvivere sino a oggi.

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Fonte: armietiro
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