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Porto d’arma nemmeno più ai questori!
Non c’è dubbio alcuno sul fatto che, pur senza averlo mai dichiarato apertamente, è in corso una progressiva e fortissima riduzione delle licenze in materia di armi sul territorio italiano. Che vi siano stringenti controlli al rilascio è ovviamente cosa buona.
Sembra, però, che l’Amministrazione addetta al rilascio e la giustizia amministrativa si siano allineati nel falciare le licenze in circolazione anche in fase di rinnovo, anche in spregio a consolidati principi di diritto che, tanto, basta essere d’accordo e al cittadino non resta scampo.
È così, per esempio, che possessori di armi con licenza per Tiro a volo si vedono negare l’ennesimo rinnovo magari dopo avere ottenuti più di uno (si parla di decenni di possesso ininterrotto) sulla scorta di fatti risalenti a una data anteriore al primo lascio…
Cosa ne è del principio per cui l’Amministrazione è tenuta a giustificare il proprio cambio di orientamento se non vi sono fatti sopraggiunti dal rilascio alla data di richiesta di rinnovo? Cosa ne è del legittimo affidamento del cittadino? Cosa ne è del diritto di detenere un’arma, fosse anche solo a scopo di difesa abitativa, posta la modifica all’art. 52 del Codice penale che nel 2006 espressamente aveva introdotto il concetto di difesa armata della proprietà Ma c’è di più. Molto di più.
Negato il rinnovo all’ex Questore
È incredibile la vicenda di un Questore in quiescenza che si è visto negare il rinnovo del porto di pistola. È vero, per carità, che è principio consolidato in materia il fatto che il solo fatto di appartenere a una determinata categoria non sia di per sé solo un giustificato motivo per girare armati. Sulla carta, dunque, non basta svolgere o aver svolto una determinata professione per godere di un diritto del genere. E questo si sa.
Allo stesso tempo, però, quando nelle proprie istanze il richiedente, dopo 35 anni di polizia, evidenzia l’esposizione a rischio spendendo nomi, date, dettagli di un ruolo anche operativo che lo hanno sempre fatto ritenere meritevole di girare armato, qualcosa non quadra.
All’esperienza operativa personale del dirigente in questione, si aggiungano anche i rischi discendenti dall’essere stato autorità di Pubblica sicurezza, con tutto ciò che ne consegue in termini di decisioni e responsabilità assunte.
Se, poi, l’Amministrazione di Pubblica sicurezza segue rigidamente propri parametri di interpretazione, fa specie che la Giustizia amministrativa le faccia eco: il nostro questore, infatti, si è visto respingere in prima battuta la tutela cautelare anche dal Tar di competenza, avendo ovviamente impugnato il diniego di rinnovo.
Valutare il rischio
La concessione di licenze di questo genere deve rispondere (ed è la stessa norma che lo chiede) a una valutazione del rischio, concetto che la norma esprime in modo atecnico usando l’espressione di “dimostrato bisogno”. Il rischio è un concetto probabilistico e si esprime come “probabilità per danno”. In sostanza, si tratta di valutare la probabilità di accadimento di un evento dannoso, futuro e incerto.
A nulla varrà, quindi, sostenere che, statisticamente parlando, i numeri ci dicono che il bisogno di difendere la propria vita per un operatore di polizia in pensione si è verificato in un numero sporadico di casi, proprio perché il rischio si riferisce, per sua natura, a un evento che ancora non si è verificato, altrimenti parleremmo di recidiva…
Ovviamente, mantenere traccia degli eventi accaduti ed elaborare statistiche è uno strumento indispensabile anche ai fini della valutazione dei rischi, perché può senz’altro rappresentare uno dei molti elementi che possono contribuire a stimare la probabilità di accadimento. Resta però il fatto che il numero di eventi accaduti in passato non equivale letteralmente alla probabilità di accadimento futuro e persino la norma impone una valutazione assolutamente ad personam.
Chi si occupa professionalmente della valutazione dei rischi in ambito sicurezza, sa bene che in questo campo il vecchio adagio “non è mai successo” può essere letteralmente suicida, così come la risposta “si è sempre fatto così”…
Eventi come il bisogno di difendere la propria vita per chi operativamente abbia, per esempio, contrastato criminalità organizzata o terrorismo sono, infatti, fortunatamente eventi a bassa probabilità. Ma nel caso in cui dovessero avvenire, sono senz’altro eventi ad altissimo impatto. Ma non è tutto.
Seguendo lo stesso ragionamento, anche adottare la presunzione che dopo un determinato lasso di tempo, come ad esempio i cinque anni che il Ministero dell’Interno sembra aver adottato come criterio-base, il rischio sia giunto a zero è prassi non condivisibile per le stesse ragioni esposte sopra.
Trovare l’equilibrio tra esigenze contrapposte
Si è ben capita, sebbene non la si condivida affatto, la volontà di ridurre il numero del le armi legali possedute dai cittadini, sebbene sia dimostrato che delinquono in stragrande maggioranza le armi illegali e il mercato nero delle armi si stia alimentando dai conflitti in corso come raramente prima d’ora.
Se pure, per mera ipotesi, si volesse accettare questo piano di ragionamento, è però necessario soppesare anche le esigenze che stanno sull’altro piatto della bilancia:
- Quando può dirsi cessata del tutto la probabilità che qualcuno nutra concreti sentimenti di vendetta?
- Cosa ne è poi, per esempio, della possibilità di avere un potenziale first responder esperto e professionale in caso di evento violento in luogo pubblico, come nei numerosi attacchi alla popolazione in corso su suolo europeo?
- E ancora, sull’altro versante, qual è l’utilità pubblica di privare di una licenza per girare armato un soggetto al quale per decenni si è chiesto di portare un’arma e intervenire in caso di bisogno? Qual è, in sostanza, il contro-interesse? Non ci si fida di un uomo a cui si è chiesto di essere autorità di Pubblica sicurezza? È davvero un problema autorizzarlo a circolare armato dopo averlo fatto per quasi quattro decenni?
È tempo, dunque che in ogni sede vengano rivisti i criteri di valutazione del rischio.
Lo hanno da tempo dovuto imparare le aziende, che devono redigere documenti di valutazione dei rischi, con tanto di matrici, in relazione ai propri dipendenti, a rischio di sanzioni pesantissime nel caso di inadempienza.
Ricordiamo tutti l’esempio piuttosto recente del consiglio di amministrazione di un’importantissima azienda condannato in sede penale per non aver gestito il rischio legato all’incolumità di suoi dipendenti all’estero, che persero la vita un esito a tragici eventi.
Il diritto, dunque, non può restare estraneo alle scienze tecniche espresse da altre discipline, arroccandosi dietro ricostruzioni intellettuali sue proprie.
Si affida da sempre al sapere di altre discipline quando la questione riguarda aspetti tecnici, come il caso di una perizia su un immobile o su di un macchinario.
Che lo faccia anche facendo proprio i concetti scientifici di altre discipline, come il risk management, che da decenni, se non da secoli, si occupano di questioni meno tangibili (la sicurezza non è senz’altro un bene tangibile) ma non per questo meno centrali nella vita dell’uomo.
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Fonte: armietiro
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